#Serenacomevenezia

#benebene.

Sono stati giorni un pò nervosi.

Non c’è stato nulla di particolarmente grave, ma ho concluso poco di quello che avrei dovuto.

O almeno, solo porte sbattute in faccia. Da privati che mettono annunci di auto usate su FB per poi non rispondere, a commerciali che mi avrebbero richiamata per fissare un appuntamento per poi non farlo, per finire con un bidone tirato perché “Scusa ma devo fare il cambio armadi.”

A condire il tutto, una grande malinconia che mi ha tirata per la maglia, e stava per mettermi a sedere, darmi in mano un fazzoletto, e mettermi seduta, davanti ad uno schermo con le immagini dei mesi passati.

Ma questa volta non ho voluto guardare, e mi sono concentrata su altro.

Su di una sensazione, perché’ mi stanno insegnando che sulle sensazioni ci si deve stare, se ci fanno stare bene, e se fosse in un posto sarebbe nel cassetto del mio comodino, accanto agli orecchini col cammeo rosso che mi aveva regalato Zia Paola. Ed ho realizzato che non se ne va, una voce della mia “to do list” sempre presente, come comprare la gorgonzola. E’ una sensazione, una fitta, una pienezza che ho percepito come fisica.

Il bene che mi circonda, ecco cos’è quella sensazione. L’ho percepito, non solo come se quel bene occupasse un proprio spazio, ma come se occupasse tutto lo spazio intorno.

Come una scialuppa che imbarca affetto.

E quindi ci sto da un bel po’ su di quel bene bene, non a definirne i confini, ma a perdere dentro gli occhi.

E poi ho pensato che dell’altro bene, di quel bene che bene bene non è, ma è un bene male, quel bene che alcuni ci rovesciano addosso, ma che su di noi lascia cicatrici che guariscono lentamente, non so proprio che farmene, ora che c’è il bene bene, che non lascia segni, se non i piatti nel lavandino dopo una cena, le orecchie stordite dalle troppe chiacchiere, gli scarponcini macchiati di fango al rientro dalle camminate.

Perché il bene male entra in casa con le scarpe sporche, fa cadere nel nostro cortile rami secchi che non toglie, è quel retrogusto dal sapore di bruciato del cuore del tortino al cioccolato dopo una cena pazzesca. Goccia dopo goccia inquina l’acqua del pozzo.

E subito mi sono rivista a guardare un altro film, e questa volta la mia vita non centrava, era il 2015; “Perfect Day” racconta la storia di tre operatori umanitari alle prese con la rimozione di un cadavere “extra – large” usato come arma batteriologica e gettato in un pozzo per inquinarne le acque; il pozzo è l’unica riserva idrica per la comunità che fa da sfondo alla storia, ambientata nei Balcani sul finire della guerra del 1995.

Il film è una corsa condita di tristezza e contro il tempo in cui si cimentano i tre, che nulla riescono contro le difficoltà di reperire una semplice corda che serva per tirare su il corpo, siamo pur sempre in guerra capite bene, e che poi alla fine se ne vanno su di una jeep, sconfitti dalle circostanze della vita, ma mai arresi.

Io non vado spesso al cinema, e certamente non avrei scelto quel film, leggendone prima la trama, forse fra mille. E se mi avessero anticipato la trama di quanto accaduto in questi ultimi mesi, avrei chiesto di andare avanti, premere skip, (in realta’ se avessi potuto scegliere non avrei scelto nulla), se non la casa che ho comprato, che però direi che a questo punto è già un ottimo inizio.

E visto che proprio l’altro ieri ho letto da qualche parte che ci si deve organizzare la vita attorno alle proprie ferite, direi che questo bene bene che se ne sta lì insieme alle mie cicatrici mai dome, me le prendo tutto, ci sto sopra, e me lo tengo ben stretto.

P.S Che poi, per chi se lo chiedesse, le scene finali del film raccontano che piovve così tanto che il pozzo si riempi’ di acqua, ed il cadavere uscì da solo.


Oh, I’m a lucky man/To count on both hands/The ones I love/Some folks just have one/
Yeah, others they got none

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