In generale nella vita

seiluglioduemilaventuno.

Quando mi sono trovata quasi a testingiu‘, la prima cosa che ho visto è stata una goccia di sangue cadere sul sacchetto rigido azzurro che stava ai miei piedi.

Ma come ci fossi finita, quasi a testingiu‘, non lo ricordo, o almeno mi pare di ricordare solo di aver intravisto il vetro della macchina su cui poggiava il lato sinistro della mia testa strisciare e schiacciare il verde dell’erba sottostante, nonostante fosse scuro.

Mi sono svegliata e mi sono portata le dita al naso, ed era come se le dita vedessero il sangue che colava giù. E poi era come se vedessi anche distintamente i miei piedi, le mie gambe, i sandali, le mani, e tutto pareva rispondere in maniera così naturale come prima, che neanche mi sono chiesta come fosse successo, se fosse stato saggio muoversi, chissà se avevo sbattuto la testa. Non era però naturale sentire quell’odore di bruciato, questo ricordo di averlo pensato, come ricordo di aver provato a tirare giù il finestrino, il vetro anteriore era rotto ma compatto, e dopo aver visto che funzionava, ricordo di aver afferrato la borsa, di essermi tirata su come una ginnasta per poter uscire dal finestrino di destra, ed una volta fuori, di aver risposto che stavo bene ai due vigilantes che si erano fermati a vedere cosa fosse successo, e di chi fosse quella testa riccia che faceva capolino dall’abitacolo di una macchina cappottata sul fianco sinistro la vigilia della partita dell’Italia con la Spagna. Mi sono lasciata scivolare sull’erba, mi sono seduta sul ciglio dell’asfalto, ed ho detto semplicemente: “Non ho il portafogli.”

Poi me lo hanno riportato il portafogli, che ho rimesso accuratamente in borsa dopo aver controllato che ci fossero documenti, carta di credito, bancomat e badge.

Dopo essere stata portata via in ambulanza, mentre ero in sala di attesa da sola, perché fortunatamente la gente sta a casa il lunedì sera, ho realizzato che avevo sfasciato la macchina che avevo appena finito di pagare.

In reparto, mi sono trovata circondata da vecchi sulle barelle con le flebo attaccate. Ero certamente la più giovane, anche se il seiluglioduemilaventuno ho rischiato di fare la fine di quegli anziani allettati.

Fuori dall’ospedale, mi sono appoggiata al palo del semaforo, all’uscita dell’ingresso pedonale dell’ospedale di Chivasso, stremata dalla stanchezza, ma direi anche dalla fortuna, che quella sera mi è passata sopra, come ha fatto il finestrino della mia macchina sull’erba verde. Mentre cercavo di chiudere gli occhi, uno dei due ha letto la scritta dell’ insegna “Rosticceria Santa Rita” che campeggiava gialla nella notte chivassese.

Santa Rita, a cui mia sorella mi raccomanda sempre, la cui testa di rosa (gialla), che mi ha regalato Ghiga, è custodita in un cofanetto imballato in uno degli scatoloni del mio imminente trasloco.

A questo ho pensato mentre tornavo a casa, e chiudevo gli occhi, e rivedevo la scena del sacchetto azzurro macchiato dalla goccia di sangue scuro.

Anche la Zia Giulia aveva gli occhi azzurri, in effetti.

Non serviva un incidente del genere a farmi amare la vita. Non serviva un incidente del genere, a farmi capire che la vita andasse onorata sempre, come il tempo, come i talenti. Questo lo sapevo anche prima.

Non mi ero però resa conto di molte cose che mi stavano succedendo intorno, e soprattutto di quanto fossi stanca, se sono riuscita a chiudere gli occhi mentre percorrevo un tragitto breve che conosco a memoria, io che per ironia della sorte ho macinato chilometri come un agente di commercio per tragitti lunghi e con jet lag alle spalle davvero importanti.

A distanza di due giorni sono andata a rivedere la macchina, o almeno quel che restava, l’abitacolo invaso dagli airbag, quello sinistro ed il vetro del finestrino macchiati di sangue, i bigliettini da visita sparsi, due paia di racchette nel retro.

Mi è venuto il magone, mentre recuperavo l’orecchino maculato incastrato nel finestrino di sinistra. E poi ho proprio pianto, perché la tecnologia mi ha protetta, quell’abitacolo da cui sono sgattata via perché avevo paura che scoppiasse in qualche modo mi ha salvato la vita, perché meno di quello che mi sono fatta, non avrei potuto farmi.

Ho scritto questo post di getto, ci saranno errori, forse il racconto è un po’ confuso, ma se non lo facevo adesso non lo facevo più, e voglio fissare i momenti belli, ma anche quelli brutti come questo, che poi già che ne parli e sia viva con tutti gli arti ed il cervello funzionante lo fa diventare subito un momento bello, eh.

Perché in effetti le macchine si aggiustano, o si ricomprano; i nostri pezzi, è meglio che rimangano di serie.

P.S. L’unico bracciale che mi e’ rimasto al polso durante l’impatto è stato l’ultimo regalo che mi ha fatto Zia Paola, lo scorso Natale.

In copertina, le mie due zie Giulia e Paola in montagna. Il seiluglio è stata la giornata mondiale del bacio. Penso proprio che quella sera me ne abbiano mandato uno da lassù .

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