#Serenacomevenezia

Il conforto.

Trovare il conforto, che strano affare.

In cosa troviamo conforto? C’è chi lo trova in un abbraccio, chi in un consiglio, in una persona, nella fede.

Non lo so, me lo stavo chiedendo in questa confusione di un Natale sempre meno chiaro, in cui ho perso la conta dei giorni, la corrispondenza fra giorno e numero, divisa fra DPCM ed incertezze sul come muovermi e sul dove (possa) andare.

Troviamo conforto nel sapere che la nostra pancia, anche dopo una grande abbuffata, non è cresciuta?

Nel sapere che dopo tutta quella vita che ci è passata fra le dita, e tutta quell’acqua passata sotto i ponti, il nostro cuore è sempre grande uguale e pompa sangue sempre allo stesso modo?

Negli attacchi improvvisi di scrittura, centomila idee che piovono mentre corro, o mentre guido, e non faccio in tempo a mandarmi un milione di vocali, ed alla fine rimane solo una parola appuntata sulla carta?

O nelle foglie umide che mi restano attaccate alla suola della scarpa dopo la mia corsa notturna?

Sarà quello il conforto? Lo si può misurare questo conforto? Quanto pesa? E con che cosa ha a che fare, il conforto?

Per me, ha il peso netto della materia prima, quando togliamo la tara.

Misura quanto tutti gli attimi vissuti bene se li stendessimo su di un piano orizzontale.

Ha a che fare con quello di buono che è rimasto.

La somma del mio, di conforto, in questo anno pieno di meno e povero di più, arriva in questi giorni di Natale.

Mi sono sforzata di tirare fuori il mio piccolo presepe portoghese, che mi porto dietro ad ogni trasloco. Ho addobbato l’albero, riuscendo comunque a rompere tre palline che mi piacevano pure. Ho messo persino le luci bianche al balcone, un filo intrecciato, molto semplice ma a quanto pare di grande effetto, visti i complimenti della mia vicina.

Mi sono sforzata eh, ma solo perché ho capito che il conforto per uscire ha bisogno di una piccola spinta come tutte le cose belle, lo scatto prima dell’arrivo, il movimento dei corpi, una vita che nasce.

E sono così usciti i miei Natali al caldo, di quando quell’anno ero triste, e non sapevo perché e piangevo, e mi veniva il dubbio di non sopportare più la gente, forse perché l’aereo era atterrato con gli ospiti ma senza i bagagli, e tutti si lamentavano perché la prospettiva era una intera settimana in tuta, e noi avevamo passato Antivigilia e Vigilia a fare denunce e cercare lucchetti. Si sarebbe preannunciato un Natale di merda, ma arrivò Matteo, che ormai dopo mesi sapeva leggere le mie espressioni: “Dai Elenina vieni, andiamo a fare gli alberi di Natale in reception” lui sapeva che queste cazzate mi piacevano, e ci trovammo di notte con le divise, a togliere dalle scatole gli abeti schiacciati, e c’erano aghi ovunque, e più camminavamo più si attaccavano alla suola delle scarpe, palline che rotolavano, ma tante risate, quando sei lontano quello che resta è quello a cui ti appoggianche se poi scoprii che le lacrime erano dovute alla stanchezza sì, ma anche al ciclo, però non ditelo a nessuno, mi raccomando.

La gestazione di questa foto fu lunga, ne racconterò più approfonditamente a breve.

E tutte le decorazioni pacchiane di Sharm El Sheikh, ed il brindisi sul palco, di quando avevo il vestito smanicato e l’abbronzatura a mezza manica, perciò il mio braccio era bicolore, e dovetti tenere la giacca tutta la sera, e della sera invece in cui feci gli auguri a quella persona che per me era speciale, avevamo le camere comunicanti, e nella mia testa pensavo “ ’sto cretino si degnerà almeno di venire a farmi gli auguri di persona”, lo chiamai alla mezzanotte spaccata del 24, e sentii la sua voce dalla mia camera rispondere con un “grazie Elenuzza anche a te”, e riattaccare. Quello che resta è però capire che le briciole sono destinate a terra e sono fatte per i cani, e capisci che nella vita ti meriti di mangiare tutto e farlo bene, che è proprio altro rispetto a quello.

Restano le tombole in spiaggia e la messa di Natale in Kenya, di cui presi solo la benedizione finale perché dovevo finire le schede di gradimento, il mio alberello piccolissimo che mi porto dietro in valigia, perché viaggio leggera, le luci dell’albero di Gubbio sulla collina, le feste con i colleghi, le luci di New York, tutti i bicchieri sparecchiati per aiutare i miei cugini al ristorante, le cene di famiglia con gli amici che arrivavano per il caffè, perché saremmo pure piemontesi, ma siamo casinari, e così ci piace.

Luci a NY.

Musicista, NY.

Restano le amiche che si preoccupano quando vado a correre di notte e non dico nulla, ma io sono così, faccio di testa mia, e poi dico a cose fatte.

Restano i biglietti di auguri che mi hanno fatta piangere quando pensavo di aver esaurito le lacrime.

Restano alcune telefonate di persone che credevo si fossero dimenticate di me.

Ma il conforto –per essere buono– ha sicuramente il sapore delle cose che cadono dal cielo, ma anche il retrogusto dolceamaro delle cose rimaste lì appese, come la letterina che non ho scritto perché quest’anno direi che mi sono già data fin troppe risposte, le frecce che ho al mio arco e che non so dove puntare, i passi sulle scalette degli aerei che non ho fatto e mi mancano così tanto, l’isola di Socotra nello Yemen che mi aspetta prima o poi.

Come il “clic” del tasto pause che ho schiacciato, e forse forse non sono stata l’unica.

Come l’attesa che la mia radio torni a sintonizzarsi sulla stazione giusta, o be’ se aria nuova dev’essere, che la nuova frequenza trasmetta solo pezzi belli.

Ecco, questo è l’augurio che faccio a tutti.

Buon Natale, E.

Il mio conforto ha a che fare con te.
D’altronde raga’ e’ pur sempre Natale.

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