In generale nella vita

Frena (la mula).

Come si diceva, quando eravamo bambini?

Chi va piano va sano e va lontano

Chi va forte va incontro alla morte

Ce lo dicevano quando stavamo imparando a masticare, per fare in modo che non ci strozzassimo.

Ce lo dicevano quando stavamo imparando ad andare in bicicletta, e dovevamo trovare il nostro equilibrio.

Ce lo dicevano quando stavamo imparando a guidare, per evitare che prendessimo le curve troppo velocemente.

Ma ad un certo punto hanno smesso di dircelo, ed è lì che sono iniziati i problemi.

Perché nessuno per un po’ ci ha più detto a che andatura andare, nessuno pronto a prenderci da sotto le ascelle per tirarci su, dovevamo fare da soli. Un po’ ce la siamo cercata eh, sempre a voler fare i grandi, quando magari (ma non era il mio caso) lo eravamo solo in altezza.

E sono cominciate le sbucciature, le bocciature, i denti rotti, perché siamo andati troppo forte, ma la velocità si paga sempre, e soprattutto bisogna avere il volante ben saldo, una macchina che conosciamo, e l’equilibrio è un compagno bastardo, quando pensi di averlo raggiunto, ecco lì che si dilegua, si nasconde per farsi trovare, ma non sempre ci trova disposti a cercarlo.

frenare

/fre·nà·re/ transitivo

  1. 1.Rallentare un corpo in movimento, spec. un veicolo, opponendosi a un aumento della sua velocità o diminuendola fino eventualmente ad annullarla.
  2. “f. l’automobile”

Però non so come mai, e non so dire con esattezza quando sia successo, forse dopo l’adolescenza, quando vai veloce e non te ne frega nulla, perché il tuo corpo di gomma attutisce gli urti, e ti senti invincibile, dicevo ad un certo punto della vita i genitori vengono sostituiti dagli Altri, e dalle circostanze intorno, che spesso ci impongono un’altra velocità, la loro velocità.

Noi, che credevamo di essere Pietro Mennea, ci siamo ritrovati con le gambe piene di pensieri, o semplici spettatori delle gare altrui.

Perché gli stop inaspettati, semplicemente e purtroppo capitano.

In fondo la segnaletica orizzontale, quella che viene definita “spesso dimenticata e sottovalutata dagli utenti della strada”, quella che incontriamo sulla strada per intenderci, non sempre è visibile, ci si può passare sopra senza accorgersene, eh. Come ho fatto io.

Veloce come un treno, avanti come un caterpillar, me lo dicono tutti.

A meno che poi non mi trovi davvero davanti ad un muro che mi parla.

Pure i muri.

O a palazzi che bruciano.

Eravamo andati a cena al Mashrabia, io Alice, Valentina e Nicola, per poterci offrire due ore di svago (e soprattutto senza divisa) dal programma settimanale del villaggio.

Una cena spartana ma piena di risate, in uno dei pochi ristoranti (forse 2,3) che la Marsa Alam dell’estate del 2009 aveva da offrire.

Però di quel posto mi piaceva tutto, la cucina egiziana certo, ma anche la carta stagnola in cui erano avvolti i piatti, il sapore della carne, e persino la shorba, proprio io che non sono amante delle minestre, anzi al contrario mi piace masticare.

Sarà che quando hai buoni compagni di viaggio, tutto diventa leggero, e fatica e screzi te li ricordi rosa.

Eravamo seduti nel dehor fuori, accaldati per la stagione in corso e per le temperature arabe, con le borse double -face bianche e viola comprate al bazaar di Ernestina, in pratica quando vestivamo in borghese eravamo vestite tutte allo stesso modo perché compravamo nel medesimo ed unico negozio che c’era.

Alice biondissima, con il sorriso largo come la vita, per me una sorellina minore (ancora oggi), che a tratti nasconde una maturità che mi sorprende.

Alice e Nicola

Valentina, che vestiva di verde, portava pantaloni larghi e con le dita si arricciava i ricci. Conosceva quel posto come le sue tasche, e continuava a sbandierare il suo carattere spigoloso, anche se poi, quando era ora di aprirle quelle tasche, per lanciarci le boe per stare a galla, non si risparmiava.

Infine, sempre e perennemente circondato da donne, Nicola, l’istruttore di sub del centro diving, che risata inconfondibile la sua (che ha fatto prendere il brevetto da sub a decine di assistenti), da noi soprannominato l’edicolante perché quando andavamo nella discoteca all’aperto del villaggio, la famigerata “Malindi” se ne stava in un angolo appoggiato ad una sorta di bancone, tanto che sembrava stesse aprendo le serrande di un’ edicola appunto, e noi fossimo in coda per comprare i giornali.

Valentina e Nicola dietro l’edicola

Eravamo intenti a mangiare a quattro palmenti, quando ci accorgemmo di un incendio che era scoppiato nel palazzo che si trovava nella parte opposta della strada.

Le fiamme divampavano, e la vaga lontananza dell’odore acre delle macerie che stavano bruciando stava cominciando ad arrivare alle nostre narici.

Guardammo il fuoco, e facemmo spallucce, me lo ricordo, e continuammo a mangiare, carne mista a frammenti di stagnola, a commentare episodi bizzarri di quella vita quotidiana così surreale rispetto a quella a cui eravamo abituati fino a qualche giorno mese prima, e che però era diventata parte integrante della nostra realtà, con un occhio al telefono perché eravamo reperibili, e con un occhio a quella sparuta (in termini numerici) presenza di vita (maschile) che ci passava davanti, perché le attività erano ancora aperte, ed era solo serata e non notte.

Non so come, si materializzò un italiano dal nulla, spaventatissimo, che si piazzò davanti al nostro tavolo, avendo sentito che eravamo italiani, e ci disse: “Quel palazzo sta prendendo fuoco!!!! Chiamate qualcunooo”, agitato come ero io quella volta che l’ospite mi cadde dal cammello e sbattè la testa (voglio vedere voi, i cammelli sono alti, che credete).

Noi ci girammo in sincro, succhiandoci la punta dei polpastrelli per non perdere neanche una goccia di unto di quella carne : “Non si preoccupi, TANTO SI SPEGNE.”

Mashrabia, ed i polpastrelli succhiati. In primo piano Alice, io, Valentina

Probabilmente il signore avrà pensato che fossimo matti, noi continuammo la cena, nessuno chiamò aiuto, e che successe?

Assolutamente nulla. Ma il fuoco, dopo un po’, si spense.

Rimase l’odore acre dell’aria e nell’aria, e rimasero le macerie.

Ed allora si userà la carriola, per portare via tutto, ma prima bisogna fermarsi, guardare e capire quanto grande la si debba prendere, non sempre c’è vicino a noi qualcuno a cui chiederla in prestito.

Come ho già scritto, e ne sono sempre più convinta, più vado avanti, e meno ne capisco.

Come si diceva, quando eravamo bambini?

Chi va piano va sano e va lontano

Chi va forte va incontro alla morte

Beati allora quelli che le multe le evitano, rispettano i limiti, e stanno dentro la velocità che imposta il tutor, quelli sì che mi sa che vanno lontano.

Quelli sì che hanno capito che bisogna accettare i limiti che il mondo ci impone. Che i limiti non sono solo ostacoli che ci tolgono punti della patente, ma sono i contorni di un disegno che hanno imparato a colorare, e che tutto sommato è anche venuto meglio di come si pensava all’inizio.

Che i limiti non sono altro che il solco fra quello che c’era prima e quello che verrà, ed il solo modo per saltare più lontano è prendere fiato, inarcare la schiena e guardare dritto.

Cosa penso io?

Che forse quel bicchiere di te’ caldo che ho sempre rifiutato perché “se no rallento la mia corsa” quasi quasi lo devo accettare.

E che dopotutto, persino la merda è un buon concime.


Io rimango qui, io rimango qui/ Che non ho ancora paura
Di dare via la pelle, vivere come stelle, vivere per me

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