In generale nella vita

Toccarla piano.

Nella foto di copertina la zia Paola mi fa i codini. Io avrò avuto circa 3 anni, e mi lascio tormentare solo perché anche lei li porta, proprio come insegnano i manuali di psicologia (mi pare di ricordare): se si vuole parlare con un bambino ci si deve mettere alla sua altezza, per farlo sentire a proprio agio.

Ecco in parole povere, quello che significa la parola empatia: mettersi nei panni degli altri, facendoli sentire a loro agio.

La mia amica Tozli, il cui cognome venne storpiato da un medico egiziano ormai dieci anni fa, che  scrisse in modo sbagliato il suo cognome su di un referto, la settimana scorsa mi ha fatto riflettere con una frase illuminante, come è il suo sorriso, ribattendo il mio lamentarmi sul fatto che la gente, oggi più che mai, manchi di empatia e coerenza. “E ma Baudy, di cosa stai parlando, empatia e coerenza sono beni di lusso.”

Ho sempre pensato che l’empatia sia come la misura del proprio piede da adulto. Con entrambe ci nasci, e crescono con te.

La misura del piede però ad un certo punto si ferma. L’empatia no, quella cresce con gli anni, e si nutre delle domande che sente.

Perché sono le domande, sempre quelle, che fanno smuovere qualcosa.

Fanno smuovere quella cosa lì, piazzata da qualche parte nello stomaco, un punto che a distanza di anni non ho ancora capito dove sia, figuriamoci se riesca a descriverlo.

Non so bene dove sia, e non so neanche bene come dare una forma, a quella cosa lì.

Ma so che è fatta di tutti e cinque i nostri sensi:

il tatto, quella lacrima che è lì e fa capolino, e poi ricacci indietro, perché la cosa che ti raccontano è parallela ad altri binari percorsi.

il gusto, il sapore della lacrima sulle labbra quando le lecchi, che non sa di niente, ma quando va più giù, allora sì che lo senti, il gusto a volte amaro a volte solo salato, che però si tollera dai.

la vista, un uscio di casa a noi sconosciuto, chissà se chi ci apre ha realmente voglia di farci entrare.

l’olfatto, dell’odore di tutte le case.

l’udito, il sussurro del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” che risuona nella testa.

ed allora arriva l’empatia, il sesto senso mai menzionato, quello che li racchiude tutti e cinque ma che può esistere a prescindere da tutti gli altri.

A prescindere da tutto, avevo buone intenzioni con quella ragazza, a Sharm, credo fosse febbraio 2010.

Di lei purtroppo non ricordo il nome, non so se sia la mia memoria che resetta alcuni dettagli di episodi tristi, in un perverso meccanismo di auto protezione. Perverso perché il non ricordare ti costringe a scavare più in fondo, ed in genere quello che vuoi trovare si trova sempre uno strato sotto.

 Ma comunque, quella ragazza era la metà di una delle tante coppie che vidi passare quell’ inverno.

Io ero la prima persona che vedevano gli ospiti in aeroporto, quella che li portava in villaggio, cercava di non farli addormentare in bus, raccontava le escursioni, spiegava dove si trovavano il medico, i negozietti, occhio che l’acqua è subito profonda, c’è un pontile, mettetevi la crema solare etcc.

In quel caso, in quel preciso caso, io fui anche fra le ultime persone che lui, l’altra metà della coppia, vide.

Ma andiamo con ordine.

La stagione proseguiva fra giornate scandite a vedere il Monastero di Santa Caterina, luogo in cui, secondo la tradizione cristiana, Mose’ avrebbe parlato con Dio nell’ episodio biblico del roveto ardente (e dove ricevette i comandamenti) e vita notturna, offerta dai vari locali gettonati dalla clientela italiana. Antico vs Nuovo.

Monastero di Santa Caterina

La clientela che frequentava il villaggio in cui lavoravo io era composta per la maggior parte da ospiti sull’ anzianotto andante, che scendeva presto in spiaggia e sonnecchiava il pomeriggio (tanto dalle 15 il sole cominciava a scendere) per ricaricarsi in vista della gita nella valle del Sinai.

Il nuovo invece era incarnato dalle coppie di giovani che tiravano tardi la sera, ed anche la mattina. Le vedevamo scendere per ultime, a colazione, io e Matteo, seduti allo stesso tavolino (per mesi ho creduto che lui stesse vicino a me perché gli faceva piacere la mia compagnia, poi mi disse candidamente che no, lui era lì per controllare che gli animatori fossero puntuali dopo i bagordi della sera prima. Finsi di rimanerci male. Ma non era vero).

Matteo si sarebbe rivelato con l’andare dei giorni un alleato per me fidato, in quella stagione. Sharm si stava rivelando un’entrata a gamba tesa, e per di più da dietro, ed io non ero certo allenata a guardarmi le spalle.

Dopo avermi studiata per un mese circa, un giorno si presentò nel mio ufficio, con il giubbottino in pelle marrone, voleva sfogarsi un po’. Stetti ad ascoltarlo, e non gli dissi nulla, ero solo mortificata perché sentivo un odore come di cane bagnato, a cui lui sembro’ non dare peso. Alla fine se ne ando’ dicendo “Grazie”, io farfugliai un prego imbarazzato, perché avevo capito che in realtà erano le mie Converse tarocche a puzzare così.

In un ambiente in cui l’empatia era solo una parola di sette lettere, Matteo tirava dritto, e soprattutto non mi lasciava indietro.

Per tutto questo, e per il bene che gli volevo e gli voglio tuttora (anche se quando lo chiamo e parte uno dei miei “Ti ricordi?”, lui non ricorda niente di niente), fu il primo che chiamai quando successe quello che successe.

Era un venerdì, mi ricordo, e stavamo organizzando un piccolo party noi assistenti ed alcuni animatori.

Io mi ero tolta la divisa, ed avevo infilato in borsa una coroncina in plastica, che mi ero comprata per carnevale, e non ricordo perché l’avessi presa, ed una bottiglia di birra. D’ altronde se ti invitano, fosse anche in una camera 3×2, non ci si presenta a mani vuote.

Ma al party non ci arrivai. Avevo appena varcato la soglia della reception, quando mi chiamò la mia collega, ironia della sorte, Elena anche lei.

In comune avevamo (ed abbiamo) solo il nome. Lei ha i capelli lunghi e ricci che ostinatamente si liscia, gli occhi verdi, mani curate e maniere molto eleganti. Non ricordo di averla mai vista fuori posto. Né ora, che per il suo ruolo deve essere sempre impeccabile né all’epoca – fortuna che al mattino io sono veloce, altrimenti la nostra amicizia non avrebbe superato la prova di una camera doppia.  Mentre lei stava in camera a decidere che vestito mettersi la sera, io facevo in tempo a scendere al pool party, ballare, bere la mia birra, risalire in camera, fare i capricci per prendere il bus con gli ospiti, lei mi redarguiva perché no, noi avremmo preso il taxi. E dopo tutto ciò, io ero sempre seduta sul letto ad aspettarla, perché si stava mettendo il lucidalabbra. Tanto l’ho aspettata io, tanto lei ha avuto pazienza con me, con i miei messaggi sgrammaticati scritti di fretta, con i miei silenzi quando devo parlare del mio privato, anche se poi si fa trascinare dalle mie parti a mangiare il fritto misto.

I receptionist avevano fatto casino come al solito, i due nomi uguali in due hotel diversi li mandavano in tilt, ed avevano chiamato lei anziché me.

“Corri in hotel perché sta arrivando un’ambulanza, c’è qualcuno che non sta bene.”

Niente party, né coroncina da mostrare, né birre da aprire. Tutto rimandato. Perché se vai in ospedale a quell’ora, ne hai per tutta la notte, ed il giorno dopo pure l’aeroporto.

Comunque, correndo arrivai in hotel, entrai in camera, e stavano portando via lui, la metà della coppia. Lei mi guardava con i capelli arruffati e arricciati.

Senza fiatare, e senza parlarci, seguimmo l’ambulanza in città, avrò sicuramente ripassato le operazioni da fare in questi casi, perché se sulla pratica a furia di leggere possiamo essere bravi tutti e sembri preparato, la vera scuola inizia quando ti succedono, cose così. Tanto per come fai, sai già che sbagli.

Il lui fu operato, io e lei fuori dalla sala operatoria, ad aspettare. I medici uscivano, ma le notizie non erano confortanti.

Chiamai il mio capo, per avvisarlo di quello che stava accadendo. Mi ricordavo che mi avesse detto una sera, parlando del più e del meno, che a lui certe situazioni non erano mai capitate. E quella situazione lì, era fra quelle. Ovviamente.

Dopo altro tempo, fra chiamate perse di Matteo, a cui avevo mandato un laconico messaggio: “Sono in ospedale, ti chiamo dopo”, e confronti con Elena, che aveva più esperienza e fermezza di me, uscì il medico a dirci che lui non ce l’aveva fatta.

Io in cuor mio già lo sapevo, ma non avevo avuto il coraggio di dirlo, e non volevo concedermi il lusso di ammetterlo. Lei guardava me con l’aria di una che non capisce nulla. Il mio capo guardava me con la stessa aria di lei, ma la cosa che gli riconobbi fu il suo self control, che non lasciò trapelare il fatto che non sapesse da che parte cominciare.

Una volta sgelato l’imbarazzo, tornati in hotel, ed espletate le varie formalità, chiamai assicurazione e consolato, credendo di poter contare su entrambi. Se con la prima avevo dimestichezza, con il consolato mi andò peggio, perché proprio in quei giorni (ovviamente) si era incagliata una nave da crociera nel porto di Sharm, con molti feriti. Mi dissero: Elena, per favore aiutaci tu, ti spieghiamo cosa fare, e tu segui passo passo. Tanto per come fai, sai già che sbagli. Però quelle parole quanto meno mi fecero sentire meno sola.

Quando il campo da calcio si svuota, c’è sempre quello che rimane a controllare che gli spogliatoi siano sgombri.

Quella notte interminabile volgeva al termine, quello che si poteva fare al momento era stato fatto. Era ora di tornare in camera, ognuno con i propri compagni di stanza, veri o finti che fossero.

Il mio capo andò a dormire con l’immagine (tutta finta si intende) della mia testa sui suoi denti, dopo avermi dato una pacca sulla spalla dicendomi la prossima volta la gestirai meglio.

Elena credeva di andare a dormire con me, ed invece si ritrovò sola con la consapevolezza che da sola si sarebbe sciroppata tutto l’aeroporto del giorno dopo, come le pesche.

Io che credevo di andare a dormire con Elena, non ci andai.

Perché non è vero che al peggio non c’è mai limite. O almeno non quella sera. Quella sera restava la sensazione, da qualche parte nello stomaco, e salì su, arrivò nella testa, divenne un gesto. Feci quello che avrei voluto venisse fatto a me.

Andai in camera, è vero, presi la divisa per il giorno dopo, ma andai a dormire in camera della Lei rimasta sola.

Che mi accettò suo malgrado, senza dire nulla. Appariva imperturbabile, sarà stato lo shock. Nulla disse, non emise suono. Quelli li avevo evidentemente presi tutti io. Dormii un sonno disturbato, e mi svegliai più di soprassalto di lei. Ma il mondo va avanti, gli ingranaggi, dopo che si sono inceppati, devono ripartire.

Avevo chiamato Matteo, gli avevo spiegato la situazione, avevo chiesto discrezione. Perché il villaggio quando vuole ha la lingua tagliente ed il dito puntato come un cittadino in quarantena. La quarantena è prodotta sul mercato in taglia unica, ed ognuno se la cuce addosso e la adatta credendo di indossarla meglio di tutti gli altri.

Per fortuna, oltre a lui, avevo Cate(na). Che era il più grande casinaro che si desiderasse, travolgente come Fiorello, ma disciplinato come un militare, all’ occorrenza. Polemico e ribelle, non perdeva occasione per punzecchiarmi, dicendo fra i baffi (che non aveva) che non sapevo lavorare. Ironia che quando poi gli capitò veramente una che non sapeva che pesci pigliare, mi mando’ dei messaggi disperati. Ma avevo capito che con lui era così, prendere o lasciare, e a distanza di anni siamo ancora qui, lui si è sposato con Pet in una masseria in Puglia, ed ha chiesto a me di celebrare il suo matrimonio.

Per i due giorni a seguire mi ero premurata di cercare i vestiti puliti per lui, accertarmi che lei mangiasse, respirasse (o almeno ci provasse), si vestisse, dormisse (cosa che io continuavo a non fare), e la notizia non trapelasse.

Feci quello che avrei voluto io. Un po’ di compagnia, anche silenziosa, una presenza, anche se inutile. Avrei voluto anche un abbraccio, quello si, ma non era il caso, come non lo è ora, che strana la vita, eh.

Il suo ultimo sguardo è stato un ovale vuoto nella reception, mentre la accompagnavo al bus che l’avrebbe portata in aeroporto. Nessun grazie, nessun contatto, nessun suono, quelli li avevo presi tutti io, ed erano tutti nella mia testa.

Perché non facciamo quello che facciamo perché qualcuno ci ringrazi, facciamo quello che facciamo perché altrimenti le azioni sarebbero solo parole vuote, con una lettera in meno della parola empatia.

Facciamo quello che facciamo, e scegliamo di non parlare o di non puntare il dito perché ora non è il momento. Facciamo quello che facciamo, e scegliamo di tacere perché il peggio verrà dopo. Quando la quarantena, una volta finita, ci mostrerà quanto sono profonde le ferite che abbiamo riportato, perché ora curiamo tutto con un po’ di alcool.

Facciamo quello che facciamo perché in fondo, ognuno di noi crede di essere nel giusto.

Facciamo quello che facciamo perché quel giusto non ci fa pensare che le linee rette andranno anche all’infinito, ma proprio per questo non si incontrano mai.

Facciamo quello che facciamo perché dobbiamo prendercela con qualcuno, perché chissà come saranno i prossimi mesi, e chissà se per agosto ne usciremo, e se davvero entreremo in acqua scaglionati, e se davvero ci saranno le cabine in plexiglass.

Facciamo quello che facciamo perché non è vero che la barca è la stessa per tutti, ed in momenti come questo anche chi ha un posto libero preferisce stare largo perché dice di avere le gambe lunghe, anche se poi a malapena sfiora il metro e cinquantotto.

Tante cose facciamo e disfiamo e non ci rendiamo conto che uno dei pochi bene di lusso, che scarseggia e non sappiamo dove trovare perché non ci possiamo spostare con la macchina, è l’empatia. Oltre a tante bustine di lievito, s’intende.

19 commenti

Rispondi a Roberta Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi