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#Zina

Chi mi conosce un minimo, sa che io sono un animale sociale.

Mi piace uscire, fare baldoria, il rumore, le chiacchiere.

Non mi è mai piaciuto granche’ il silenzio, mi è sempre sembrato come una bacinella vuota, di quelle in plastica colorata che trovi in genere nel market sotto casa.

Da un paio di anni a questa parte però, ho scoperto invece che il silenzio è tutto fuorchè vuoto.

Perchè il silenzio, proprio e condiviso, regala ad altri la possibilità di essere. E raccontarsi.

Questo è quello che ho pensato durante il mio viaggio On the Road in Marocco, a cavallo dell’inizio di questo surreale e bisesto anno 2020.

In compagnia di Perfetti Sconosciuti, con cui ho condiviso chilometri, parole, sonno, confessioni, spuntini, “chi è che deve fare pipi’?”, io sempre la prima ad alzare la mano, scelte musicali discordanti, chi ha i fazzoletti, Hassan vai piaanoooooooo”, ora ci stampiamo, Elena parlaci tu, si va bene ma con chi.

Durante le mie fugaci uscite di questi giorni, per comprare l’acqua frizzante e del vino (o birra) perchè dalle 17 ogni occasione è buona, ho pensato molto a quell’ultima giornata del tour.

Anche se è stata quella che mi è piaciuta meno. Quella su cui avevo più aspettative.

Come il cornetto, la cui punta è piena di cioccolato.

Come quel vestito sul manichino, che speri che addosso faccia la stessa figura (anche se succede raramente).

Come quel discorso che avevi preparato, e sembrava così bello, ma poi ti accorgi che la prima fila sta dormendo.

Mi immaginavo Marrakech piena di palmeti, fontane zampillanti d’acqua, e datteri e argenti, e ori, e gente.

Me l’immaginavo come una donna bella ed intelligente che sa di esserlo, e non fa nulla per nasconderlo, ingenua (quando vuole) e sorridente.

Una Meghan Markle, che ci fa pensare che anche una donna afro-americana con le paperine ai piedi ed il jeans strappato al ginocchio possa sposare un Principe. Che indossa le scarpe un numero più grandi, che se ne frega di essere più vecchia e divorziata, ma si fa ricamare i fiori del Commonwealth sul velo.

Una per cui fare il tifo insomma. O almeno, una per cui io avrei fatto il tifo.

Come Marrakech, che sapevo per certo che avrebbe vinto, alla fine del viaggio.

Invece.

Invece sarà stato che è stata l’ultima tappa.

Avevamo la testa piena di deserti e tramonti, tè alla menta non bevuti per paura del cagotto, di kasbeh e dromedari, di arrivi notturni e colazioni sul tetto.

Avevamo la testa piena di racconti figli di quello che siamo stati, di quello che ci era accaduto prima di quell’incontro, nato fra l’aeroporto di Malpensa, passando per Roma, e Bologna, ed arrivando a Casablanca.

C’era Vito, che mi aveva colpito già dalla frase dello stato di WhatsApp “se volevo cambiare carattere, nascevo Word”, pugliese di nascita, ma milanese di adozione. Attento all’ ordine, al Gruppo, sempre coordinato, soprattutto di pensiero, cosa non facile oggi, e non so dove avesse nascosto tutti quei cambi nello zaino, e nella testa. Occupava il posto nell’ ultima fila, vicino al finestrino, ed ogni tanto si assopiva con la testa appoggiata al vetro, e gli occhiali scuri.

Vicino a lui Giada, minuta e sportiva, a cui abbiamo rivolto tutti i giorni milioni di domande sul suo lavoro. Lei leggeva la Lonely  ad alta voce e mi chiamava da dietro, dicendomi “Senti, ma chiedi un pò, questa cosa la vediamo?”, le foto che si faceva scattare (da me compresa), erano fra le più movimentate, in pose da vera ginnasta che solo a vederle ti veniva lo squilibrio, mi sono sempre chiesta come facesse a stare in piedi.

Vicino a me invece Diletta, che prima di partire aveva avuto la febbre, poverina. Ma nonostante ciò’ era riuscita a portarsi dietro un guardaroba assortito, ed in tinta peraltro , persino con i posti che andavamo a vedere. E quando le chiedevo dove avesse comprato tutto quel popò di roba mi diceva: “Da Decathlon”, ed io penso invece che lì di glamour non trovo mai nulla, ma io a volte non vedo ad un palmo dal mio naso. Anche se restava con la testa appoggiata al finestrino, ed ogni tanto ascoltava la musica perdendosi fuori, oltre il vetro, mi raccontava della Sua prima Quarantena, quando studiava per diventare Avvocato, e di come si fosse tagliata i capelli per voltare pagina.

Siamo arrivati in Piazza Djemaa El Fna il primo venerdì di gennaio, il 3.

presa da un sito perchè non riesco a caricare il video

Era come trovarsi nella pista principale dell’Asia di Busnengo.

Il pulmino ci aveva lasciati ai margini della piazza, che abbiamo attraversato con zaini avvolti nelle medesime portasacche, i vestiti di giorni, la sabbia nei capelli.

 Ad ogni passo, era un voltarsi in mezzo a quel casino.

Rumore, bancarelle, sulla nostra sinistra ed alle nostre spalle la Medina, e sulla destra la via con le luci truzze e le gelaterie all’italiana.

Nel mezzo, il caos, le djellaba marocchine, anche le se più belle erano quelle che avevo viste nel Deserto, che erano blu.

Blu come gli occhi di Larissa, e blu come i maglioni che spesso indossava. Lunghi capelli neri, come lunga la si poteva definire, in altezza, per cui se qualcuno si fosse perso in mezzo a quei colori, avrebbe potuto facimente ritrovare il Gruppo o lei, a seconda dei casi. Raccontava della sua passione per il ballo, del suo perdersi in mezzo agli archivi del Tribunale di Milano, del recente viaggio a Cuba.

E meno male che in quella Piazza il Gruppo, dopo giorni di forzata convivenza si era finalmente riconosciuto, gli zainetti erano familiari, il modo di camminare pure, altrimenti ci saremmo persi.

Persi perchè al trambusto non eravamo abituati, ai modi di voler essere così smaccatamente simili a noi Europei neppure, dove era finita la promessa di un 2020 così diverso, che i giorni prima ci avevano regalato? Il 2020 che ci stavamo aspettando non stava di certo la’ dentro, nella tajine che mangiavamo avidamente perchè presi dalla fame, anche se quel cous cous, l’ennesimo che sgranellavamo con il cucchiaio ci piaceva così tanto, in quel momento, anche se il suo sapore era così diverso rispetto a quello di Chefchaouen, della città blu, in in bugigattolo in cui noi eravamo più grandi degli stessi divani su cui eravamo seduti, degli stessi cuscini su cui poggiavamo la schiena indolenzita.

A cena io ero seduta vicino a Sonia, con gli occhi neri segnati dall’eye liner. Bellissima con i tratti quasi orientali, aveva un modo di portare il marsupio tutto suo, che poi è un Borsello che ha un qualcosa di sfigato, ma lei lo portava con grande classe. Non appena poteva, sgattaiolava per conto suo a fare i suoi giri, tornando dalla battuta di shopping con un oggetto che io, ancora una volta, non avevo visto, come una borsetta nera, degli anelli arabi, incurante delle spiegazioni delle guide.

Quando non apostrofava Hassan il driver, che ovviamente si era invaghito di lei immediatamente, chattava con i suoi amici romani per organizzarsi le serate al rientro.

Lei si’ che ci aveva visto lungo, vista la forzata stanzialità a cui siamo sottoposti ora.

Avra’ fatto scorpacciata di serate romane, per poi ritirarsi nelle sue private stanze quando il tempo lo ha richiesto.

Il 2020 era evidentemente diverso, lì in città.

Era nei palloncini semisgonfi che avevano appeso sui tralicci sopra la via, su cui si affacciava il terrazzo del nostro ostello, e su cui avevamo gustato una veloce colazione, caffè caldo e pane freddo, sfrattando l’altro gruppo, perchè noi avevamo poco tempo e troppo da vedere. Perchè fortunatamente il Gruppo si metteva in discussione, faceva domande, e pretendeva risposte.

Come quelle che avevo fatto io al 2020.

preludio del 2020?

Il mattino era dedicato alla visita libera della Medina, cuore spirituale della città, edificata nel 1070 dalla Dinastia degli Almoravidi.

La Medina, (i suoi souq) ha la zip chiusa per contenere la sua schiena, e vediamo se sei capace a  tirarla giù, quella zip. Ma attenta, che non devi incastrarne i denti, perché poi non la tiri più su.

E quando la pelle è esposta, hai voglia di toccarla, per vedere se e’ uguale a quella che hai immaginato così tante volte al mattino.

Ma se la tocchi all’improvviso, con le dita fredde, la pelle si inspessisce, fai attenzione che si ricopre.

La Medina è così, ti permette di entrare ma con le mani calde.

Perchè non tutti sono capaci di tenere le mani nelle tasche. O almeno, non tutti sanno quando è ora di metterle nelle tasche, le mani, perchè è ora di scaldarle.

Mi ero persa fra le pelli, avevo puntato quella borsa dalla forma irregolare.

“Ti piace?”

“Si, quanto costa?”

“100 euro”

“No, grazie”

“Facciamo 80”

“Assolutamente no!”

“Quanto mi offri?”

“Mah, 40 euro”

“Nooo, io non ci guardagno niente!”

“Va bene, grazie ciao”

E mi sono allontanata. Monica stava davanti a me. Alla ricerca anche lei di una borsetta, ma piccola.

Non amo fare shopping con altre persone. I miei acquisti migliori li ho sempre fatti in solitaria.

Anche se, come detto, resto un animale sociale.

Ma Monica non molla, non mi molla. Come quando usciamo a cena con gente che non conosciamo. Lei fa domade, chiede. Raramente si accontenta della prima risposta.

Mentre la raggiungo, mi corre dietro il tipo della borsa, mi dice che me la può dare a 50, io dico 40, lui 45, io va bene.

La compro, lui se ne va, mi avrà fregato comunque.

Lei mi dice “Potevi ancora scendere con il prezzo.”

Io le dico no, che per me in fondo quella borsa valeva quei soldi.

Lei mi dice “Ah siiiiiiiiii?” con quell’inflessione solo sua.

L’ho vista contrattare dei ciondoli in argento in un negozio ed un cammello in pietra accovacciate nel deserto con la stessa tenacia. Lei dice che ha preso da suo padre.

Monica mi cammina a fianco, ora, anche se ormai lo fa da molti anni, da quando l’ho conosciuta all’Università, a lezione di spagnolo, e come le dico sempre di lei mi avevano attirato i calzini a righe.

Ora non li mette più, preferisce quelli da montagna in inverno, quando partiamo per le nostre scarpinate in solitaria, con i panini marci (come li chiamiamo noi) nello zaino, io che dimentico sempre le bacchette, con cui non sono capace a camminare tanto, e l’unico momento al caldo che ci concediamo e’ quello di un caffè e di una bottiglietta di acqua frizzante in due. Il caffè a testa, intendiamoci.

Perchè si sente meno la sete, quando il peso di quello che portiamo trova un’altra spalla su cui appoggiarsi.

Contrattare è la prassi, qui nella Medina.

C’è chi si diverte, chi perde tempo, chi si fa fregare, chi crede di fregare.

A me hanno sempre insegnato che:

  1. Scendi almeno della metà rispetto alla prima offerta
  2. Non perdere tempo se non sei realmente interessato
  3. Non è un gioco
  4. Quando arrivi al valore che anche tu daresti all’oggetto, allora fermati

E questo e’ un pò un conforto, non è vero?

Sapere che c’è qualcuno, da qualche parte, che so, in una bottega di una viuzza della Mdina di una Marrakech dei primi di gennaio, pero’ potrebbe essere a Parigi, o in Via Roma a Torino, o dovunque capiti, che condivide con noi l’idea di valore che quella cosa ha.

Un pò come succede con il nostro cuore.

Che valore diamo noi, alle sue accelerate, quando le sentiamo esplodere?

Troviamo qualcuno vicino a noi, o fra noi, disposto a fermarsi (non si sa per quanto) e buttarsi con noi in una contrattazione indefinita senza tempo, per capire quanto valore dare ad un cuore che è buttato lì fra i vecchi ruggini, e che cigola, ma non si sa perchè ci piace proprio tanto, e vediamo quanto ci mette, a tornare a funzionare.

Perchè per fortuna, in mezzo ad argenti, tappeti, stoffe, tintori, e colori, ci sono dei pezzi sempre nuovi che sono ancora chiusi, ferri vecchi e cuori aggrovigliati, lampade nascoste e cuori rattoppati, in attesa di nuovi compratori e snervanti contrattazioni.

oggetti

A pranzo avevo ritrovato Gianriccardo, intento a comprare dei dolci, ricoperti di miele, il miele attirava tante mosche quante mani. Gianriccardo è una persona molto generosa, comprava dolci per tutti, teneva la cassa, faceva i conti, controllava che nessuno si perdesse.

Sapeva molte cose, dalla cucina alla farmaceutica, condivideva e non tratteneva.

Pacato all’apparenza, ti stupiva con richieste musicali come “Tuari’” di Achille Lauro.

Appassionato di birre, e di gentilezza aggiungerei.

Come gentile era Pier, all’anagrafe Francesco.

Napoletano distaccato al Cern di Ginevra, mi aiutava con il francese, quando le parole faticavano ad arrivare. O forse ero io che aiutavo lui? Alto e moro, se ne stava rannicchiato nel posto in cui nessuno voleva stare. Oppure, quando non ne poteva più, andava a sedersi vicino ad Hassan, e battibeccava con Sonia, anzi c’è da dire che erano più quelle che si sentiva dire. La sua riservatezza poteva essere scambiata per scarso interesse. In realtà, si trattava di rispetto, per quello che sentiva, e per chi gli stava intorno.

E poi il pomeriggio scivolo’, dopo aver schiacciato gli acquisti fatti negli zaini, conteggiato se mancasse qualcuno a cui comprare il ricordino, fra una spiegazione ed un accenno di storia, nel Palazzo Bahia e  le costanti domande sulla poligamia, e perché le donne facevano le concubine in un harem affollato, io piuttosto sarei morta di fame, diceva qualcuna, e la guida paziente continuava a dire immaginate che fuori c’era la miseria, e ci si vendeva per poco, perché non avremmo trovato la persona, una in mezzo a tante che si sarebbe fermata con noi a contrattare il nostro, di valore, era un gioco al ribasso, con un solo vincitore, e tutti perdenti.

Tutte le 24 concubine, oltre alle 4 mogli ufficiali, erano il riflesso del bellissimo esempio di architettura alawita, costruito tra il 1894 e il 1900 per le concubine di Ahme Ibn Moussa; il nome dell’edificio significa splendore ed era infatti destinato ad essere il palazzo più maestoso del Marocco. All’interno della struttura, un harem di 160 stanze diverse, cortili con fontane, giardini e zone private, il tutto riccamente decorato. Stucco, pavimenti in cotto, archi lisci, soffitti di cedro intagliato, marmo lucido, il rigoglioso giardino.

dettagli di Palais Bahia
interno
fontana

Il Palazzo era come mi immaginavo Marrakech, con alberi, e bianco, e fontane. Ma se l’immaginavo così, perché quel mentre me lo ricordo meno, come le cose grigie, colorate da pennarelli neri ora scoloriti?

Forse per quello non le ricordiamo, perché stanno nel mezzo, fra un prima che speriamo sappia di nuovo, ed una primavera che arriva e ci coglie impreparati?

Il prima era la Medina, l’ingorgo, le gomitate, gli occhi e le orecchie piene, i sacchetti di plastica annodati alle mani, le arachidi che mi ero mangiata avidamente, le loro pellicine marroni ed il sale sulle labbra.

Cafe’ de France

Il dopo ero io sul terrazzo del Cafè de France, oh, mi viene sempre da chiamarlo Café’ de Paris, mentre scendeva il sole, pigro ed indolente, per regalarci un’ultima discesa, prima che tornassimo a casa.

Ho scattato diverse foto, prendendo sempre qualche cosa che non dovevo. Non come Daniele, detto il Pische, che stava fermo, immobile, aveva documentato tutta la vacanza con una pazienza ed ingenuità rare, sempre con il sorriso sulle labbra, lui che diceva che non era mai uscito dall’ Europa, guardando quello che gli accadeva intorno con un misto di innocenza ed entusiasmo, che bello avere 26 anni e vedere il mondo così.

Tramonto

Quel tramonto era un pò sporco, il sole filtrava da dietro il canto del Muezzin, ed arrivava di lato, non poteva scaldare tutti, non poteva illuminare tutto, il posto in prima fila bisognava guadagnarselo.

Un momento per riposarsi, anche se io non avevo voglia di sedere, perchè se mi siedo non mi rialzo più, e voglio ancora vedere.

Ma poi quello stare lì a fare tante foto ad un tramonto – che non era neanche fra i migliori che avessi visto in tutta la mia fortunata vita fatta di tramonti- forse voleva dire qualcosa.

Forse mi dovevo dare il tempo di aspettare che il rumore delle contrattazioni smettesse. Che tutti quelli che stavano affollando la piazza sotto di me, dentro la città intorno a me, smettessero di rilanciare. Che si fermassero, per pagare il proprio conto in sospeso, dar fondo agli ultimi spicci rimasti per svuotare il borsello.

E che alla fine, una volta seduti sull’ aereo, finalmente tornassimo a casa con il bagaglio pieno di Cose a cui abbiamo deciso di dare il giusto valore ( e che sia quello giusto, almeno per noi).

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