#Serenacomevenezia

All in.

Conosco un paio di coppie che funzionano. Ma funzionano sul serio, nel senso che vedi due persone felici, che condividono tutto, dalle preoccupazioni per il conto in banca al tovagliolo a tavola, pur mantenendo le rispettive identità, amicizie, passioni. Sono persone che vedi felici anche quando l’altro non c’è, perché sono risolte e piene anche nei giorni d’assenza. Persone che si amano e che ridono molto, che vivono una vita insieme continuando a tifare l’uno per la vita dell’altro. Che non si sentono monche se l’altro non c’è, ma con un braccio in più se l’altro c’è. Io la felicità l’ho vista li’. Il resto, ossessioni, ansie, struggimenti, sono robe che hanno a che fare con l’affanno. E l’amore felice non s’affanna. L’amore felice respira lentamente, a pieni polmoni. Avrei dovuto capirlo, quando mi credevo felice col fiato corto”. Tratto da
Che ci importa del mondo di Selvaggia Lucarelli (Rizzoli, 2015).

Esattamente lo scorso anno in queste ore mi preparavo alle ferie di Natale, avevo appena comprato una macchina semi- nuova a gpl, con circa 50.000 km, ed uscivo da una pizzeria in cui ero andata a cena perché il fiato corto si era assottigliato sempre più.

Il fiato corto è come la mia cicatrice sotto l’ascella, Giusy dice che le esperienze che abbiamo vissuto lasciano sempre cicatrici. Alcune sono visibili, altre no. E per guarire le seconde spesso la cura pare non sia stata ancora scoperta.

Il fiato corto arriva quando guardi fuori dalla finestra, ed in quello che vedi non ti riconosci più.

Il fiato corto sta nella verità spiccia che qualcuno ti offre, e nelle cui tasche metti le mani perché non sai dove poter cercare altro.

Il fiato corto è bastardo, perché se ne sta lì come l’infelicità che non vuoi ammettere.

Nel mio caso in particolare il fiato corto dopo quel primo piccolo episodio, mi avrebbe tenuto compagnia per tutti i primi mesi del 2019.

Se ne stava seduto di fianco a me mentre guidavo, era nelle mie serate con gli amici, era seduto vicino a me a tavola.

Era diventato il metronomo che scandiva le mie giornate. Il mio cervello, seppur ben allenato, non è riuscito a stargli dietro, il mio corpo neanche. Ero così presa nelle cose che succedevano, che credevo che annaspare fosse l’unico modo di nuotare. La salute è andata traballando, mal di testa, sinusite, stanchezza cronica, pianti continui, sempre tutti i giorni.

E quando aprivo alcune porte, tiravo un sospiro. Ad essere onesta, non mi sono mai soffermata più di tanto su quel gesto, che ripetevo tutti i giorni. Come detto, ero frullata, come se fossi stata sul Tagada’.

Ma io sul Tagadà ci sono stata solo una volta da ragazzina, ed ero stata seduta sui seggiolini laterali, stare nel mezzo era roba da fighi ed io proprio non appartenevo a quella categoria.

Per farla breve. Il posto dov’ero, le cose che mi accadevano, non andavano bene per me. O almeno non più. E dopo aver preso un aereo -per quello che credevo sarebbe stato un week -end piacevole con un’amica- ed aver invece camminato e pianto, mangiato e pianto, fatto colazione e pianto- sono tornata a casa e dopo aver pianto ancora, ho schiacciato pause.

Ho sempre pensato di soffrire di autosabotaggio, che quando le cose vanno bene, cerco sempre una nuova paranoia, una nuova roba da fare, un problema da risolvere. Mi complico la vita da sola, quando le cose potrebbero essere semplici.

Ma invece non era auto sabotaggio, anzi il suo contrario. Se mi guardavo bene dentro, sapevo benissimo che le cose non andavano bene, che quel vestito che mi ero trovata ad indossare non solo non mi donava, ma non mi piaceva proprio per niente. Ma è molto più facile sorridere e farsi il selfie e poi tornare ad odiare sé stessi, piuttosto che vedersi con le occhiaie allo specchio, e provare a cercare di migliorare l’immagine che vediamo.

La mia sola fortuna in quel momento è stata mettere le mani in tasca e non sentirle costrette, ma trovare spazio nella grandezza dei miei genitori che mi hanno fatto capire che loro ci sarebbero stati: il giudizio (il loro, l’unico di cui in realtà mi importa qualcosa) che credevo che mi avrebbero restituito, in realtà era il riflesso del mio.

E così me ne sono andata. Da un posto in cui non respiravo. Da un posto in cui ho provato a stare, ma non faceva per me. La mia era una voce fuori dal coro. Ai solisti vengono date grandi responsabilità, perché si prendono gli onori ma anche gli oneri delle stecche; il mio inchino non è stato seguito da applausi anzi, ma è stata una lezione, per una come me abituata a stare in prima linea, ed avere accanto sempre nuovi compagni di viaggio, che ad ogni mia partenza erano pronti a riempirmi le zaino di ricordi, scoprire che in realtà non avevo lasciato nulla, ma anzi che lo zaino fosse stato più vuoto di prima, è stato una bella botta al mio egocentrismo, io che credo sempre di essere simpatica a tutti, e che come faranno senza di me.

Invece loro senza di me ce l’hanno fatta benissimo, d’altronde abbiamo sempre fatto così. Io ho scoperto che potevo farcela da sola, e per come sono andate le cose, a questo punto anche meglio.

E dopo il primo passo.

Ho imparato che quando ti dicono che le persone hanno due palle così, spesso scambiano l’aggressività verbale con i fatti. Testa bassa e lavorare, invece. Perché di tutte le chiacchiere sentite quest’anno, di molte bocche piene che mi hanno dispensato consigli, di alcune ho potuto sentire le mani che frugavano nelle tasche strette. Quelle mani sono ancora lì. A cercare di uscire, ma essere concentrati su quello che si vorrebbe fare non è la molla, ma il peso che ci tiene ancorati al fondale.

Ho imparato che è facile dire: “Guarda che bello il panorama dalla cima della montagna”, ma io voglio sentirlo dire da gente che, come me, ha lo zaino pieno e la sta salendo. Che nonostante il sudore e le mani gelate perché ha scordato i guanti sa che il cammino è l’unica cosa che conta. I primi passi sono incerti, le vesciche il male minore, le scarpe adatte l’unica cosa che vuoi trovare e non riesci. Il silenzio, di cui ho imparato ad avere rispetto, lo sherpa che condivide con te il fardello, e che tu fatichi ad accettare, per una come me amante del casino e del rumore.

Dal primo passo, sulla mia strada ci sono stati tanto bivi: le consulenze, un grosso progetto nel campo della moda, molti moltissimi colloqui, una nuova avventura lavorativa, due case, i capelli sempre più corti, i sabati sera a casa, con mia madre preoccupatissima perché dice che ti succede, una volta eri la regina della notte, e’ il quarto sabato che non esci.

C’è stato questo blog, l’unica cosa bella che ho fatto succedere nei mesi di affanno, che mi ha tenuto compagnia, ed ha parlato per me quando non ne avevo voglia.

Il fiato corto è sempre lì, intendiamoci, ed in questi ultimi giorni dell’anno lo sento tutto sul collo e sulla spalla destra, (e mi fa ridere, perché la parte destra del corpo, quella con cui scrivo, è quella meno appesantita perché non porto bracciali, né ninnoli, né nulla, pensa un po’).

“O si cambia, o si muore.” Come mi ha detto la mia amica Zanotta un mese fa. Sei parole, di cui ho riempito il mio zaino quando è stato sgombro da tutto il resto.

E quando arriveranno i momenti no, e mi sentirò mancare il fiato, perché so benissimo che arriveranno, se non altro sarò abbastanza allenata da fermarmi, respirare a pieni polmoni, guardarmi intorno, e riprendere la corsa.

P. S. Ho controllato il contachilometri della mia macchina, l’altro giorno. Ne ho più di 80 mila. Questo vuol dire che nell’ultimo anno ne ho guidati più di 30.000 mila, una media di 80 al giorno.

Dopo tutto è Natale, e questa resta la mia canzone di Natale preferita.

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