#Serenacomevenezia

Sbalzi di tensione.

A metà del mese di luglio, al termine di un evento in Sicilia, ho cominciato a fare su e giù San Benigno – Chivasso. Per ragioni logistiche, di scatoloni, familiari e molto altro.

Non facevo su e giù così tante volte dai tempi della scuola superiore, conosco a memoria la strada, le curve, l’asfalto e la campagna, i tralicci.

E proprio in uno dei miei viaggi, attaccato saldamente ad uno dei fili che passano fra un traliccio e l’altro, ho visto un uccello, forse un corvo, rimasto fulminato durante un temporale (uno dei tanti), che ci sono stati in queste ultime settimane. L’uccello corvo era a testa in giù, con le zampe salde al filo.

non voglio essere magra, ho fatto la foto da lontano

Se da Chivasso andavo a San Benigno, e me lo trovavo sulla sinistra, all’inizio del rettilineo dopo l’imbocco dell’autostrada. Viceversa, lo trovavo sulla destra.

Sono passati i giorni, un mese, poi altri dieci. La ciccia dell’uccello corvo è stata battuta da pioggia, grandine, vento, è diventata un sottile miscuglio di piume. Quello che è rimasto, e le si possono scorgere chiaramente, sono le zampe, sempre saldamente attaccate al filo.

L’uccello corvo non ha sentito la tensione elettrica arrivare, non ha mollato la presa in tempo, è stato fulminato. Era attaccato con così tanta forza al filo, che di lui rimane solo quello. Non ha lasciato andare.

Ieri sono caduta, ero a passeggiare, non ho visto un buco nell’asfalto, volevo guardare una cartina con i sentieri ed i percorsi per camminare, ed ho preso una storta, la mia caviglia sinistra, quella più malandata.

Mi sono rialzata, e mi sono rimessa a camminare. Ma dopo pochi secondi, ho sentito un fischio alle orecchie, la leggerezza salire e sono svenuta. Niente di che, mi sono ripresa subito. Mi è già successo altre volte, anche se il dolore non è lancinante, vedo a pallini, sento i fischi, ma non sento la tensione scendere. Prima di poter parlare, sono già per terra. Il corpo si lascia andare.

Quando mi capitano queste cose, mi viene sempre in mente la teoria di Claudia, secondo la quale la sfortuna e la sbadataggine non esistono*.

Ci facciamo male perché non ci va quello che facciamo, e cerchiamo scuse o attenzione. 

A furia di combattere (per tutto)  qualcosa capita. Meglio lasciare andare.

Io me lo chiedo sempre, contro cosa o per cosa combatto. Se cerco scuse. Se tutto quello che mi porto dietro ogni giorno, ogni ora mi appesantisce o mi alleggerisce, come le cose che mangio, come i vestiti, gli orecchini che indosso.

Me lo chiedo mentre mi preparo all’autunno che arriva, anche se il sole è ancora caldo, la pelle abbronzata, i cappotti marroni spuntano timidamente dalle nuove collezioni.

Mi preparo, anche se domani indosserò ancora le maniche corte, anche se ci saranno ancora le gonne corte, le corse con Federica al Robinson, i caffè della mia macchinetta finché non finisco le cialde.

Mi preparo sperando di lasciare andare tutte quello che non mi serve più, anche se volevo parlarne a dicembre, e tirare le somme, ma magari finisco come l’uccello corvo fulminato, e vuria nen (piemontesismo che significa non vorrei mai) che ha tenuto troppo stretto e non ha mollato, e poi facciamo spazio alle cose nuove, che mi arriva un armadio nuovo dalle molte ante-e quelle le devo riempire, eh.

*Parlo di piccoli traumi, cadute, o dimenticanze, non mi permetto di parlare di tragedie o simili.

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