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farmi la barba o uccidere / che differenza c’è?

E così anche il rullo compressore che è stato il Valentine’s Day è passato. Annunciato da striscioni sparsi in tutta Watamu e dintorni, attaccati da un’estremità all’altra ai pali della luce dai fili attorcigliati. Striscioni che promettevano una serata scandita dal sottofondo del Bango, musica live strimpellata in locali più o meno malfamati, ideale per le coppiette nuove o stagionate, pronte per un lento insieme.
Alle dieci del mattino avevo già ricevuto più auguri – tra telefono ed sms- di quanti non ne abbia ricevuti in 31 anni di vita. A parte gli insulti al mio tuc tuccaro che mi ha svegliata alle sette meno dieci per dirmi che mi avrebbe fatto un regalo (che ho scoperto la sera essere un mazzo di rose rosse, che tra l’altro a ben pensarci è come se lo fossi comprato da sola, con tutti gli scellini che gli lascio settimanalmente), grosse risate per le filastrocche sdolcinate che mi sono arrivate via messaggio, scritte in uno slang, misto fra swahili ed inglese,  la cui destinataria ero io, seguita a ruota da chissà quante altre, mzunguo keniote che fossero.
L’importante è non prendere niente sul serio, in questo K. Dal punto di vista umano, intendo. Non fare grossi investimenti, perché si resta con un palmo di naso. Ti può venire detto tutto, ed il contrario di tutto. Puoi diventare l’oggetto di una passione sfrenata dopo il primo sguardo, ma al secondo potresti non sembrare così appetitosa. Andare avanti per la propria strada, a volte con i paraocchi come i cavalli, a volte con i tappi nelle orecchie, come i marinai attirati dal canto delle sirene. Tracciare la via, vedere che succede.
L’importante è prendere invece sul serio quello che si vede. Quello è lì. Non è uno specchietto per le allodole, non è un’immagine riflessa nello specchio. E’ un incastro di puzzle, ogni pezzo che trovo in giro costituisce un tassello mancante.
Mi mancava la foresta di Arabuko Sokoke, l’ultima e la più grossa foresta pluviale del K.
foresta di Arabuko (sulla sin.)
Ho pensato bene di andarci in quad, anche se, memore dell’ultima volta che ci sono salita,(anno del Signore  2009, Marsa Alam. La guida mi guardò con un disprezzo tale che mi disse “Ringrazia che sei la tour leader, altrimenti ti avrei già lasciata qui!”. Io ero così mortificata, avevo fatto rallentare tutta la fila, mi sfrecciavano davanti anche le donne incinte e gli anziani, e per riuscire ad uscirne fuori convinsi l’altra guida a guidare al posto mio in modo da poter sedere dietro. Mi rivelò di essere stata operata al cuore, per cui ogni buca e sasso credevo gli venisse un infarto. Ho giurato che non ci avrei provato mai più), avevo posto la condizione di non guidare.
Il centauro di Watamu
Per arrivare alla foresta abbiamo attraversato una serie di villaggi, più o meno dotati quasi tutti di pozzo, di scuola, anche se la presenza di una maestra ho notato essere una conditio sine qua non, perché come i bambini ci hanno visto si sono lanciati come schegge impazzite in strada, quelli rimasti in aula allungavano le mani come dalle sbarre della prigione, e nessuna adulto è venuto a reclamare un po’ di ordine. I bambini hanno tutti la divisa, delle ciabattone enorme per i loro piedini, quasi tutti il cranio rasato (vedi il caldo e la maggior igiene) e quaderni tra le mani.
La maggior parte dei villaggi non è in prossimità del sentiero principale, nascosti come sono in mezzo all’erba cotta dal sole, agganciati alla civiltà da una strada sterrata che percorrono a perdifiato, non appena passano i mzungu che magari hanno comprato un chilo di farina e me la vogliono regalare.
La foresta di Arabuko costeggia questi frammenti di vita, separata da un filo spinato che tiene lontani gli elefanti nani, cattivi ed aggressivi.  Popolata da molteplici serie di serpenti, tutti ugualmente schifosi e dal  famoso caracal, meglio conosciuto come il gatto rosso della foresta.
Attaccati agli alberi ci sono dei piccoli retini azzurri, con una piccola apertura sul fondo, su cui è appoggiato un tappo contenete del vino di cocco. Le farfalle sono attirate dalla dolcezza del vino e rimangono intrappolate nel retino, e vengono portate al Kipepeo, il famoso farfallario di Gede di cui ho parlato qualche post fa, usate per la riproduzione delle pupae, che vengono poi vendute Oltremanica.
tanica di vino di cocco (gialla) e retino per le farfalle (azzurro)
Tante, numerose le liane, che come mi dice la guida “sono rami che cresciono dagli alberi” . Lasciata la foresta di Arabuko, tocca a quella delle mangrovie, il Mida Creek, che da Mombasa percorre tutta la costa per poi sparire all’altezza di Watamu. Costellata da granchi violinisti e toccata dal paesaggio che cambia ogni volta che alta e bassa marea si incrociano, dà ogni volta la sensazione che si possa offrire uno scorcio diverso, anche se il paesaggio è sempre lo stesso.
granchio violinista
Come dire: invertendo l’ordine di due fattori, il risultato cambia.
Cambia la percezione delle cose, anche a seconda dell’umore con cui ci si approccia, come nella vita di tutti i giorni.
Cambiano le forme, la notte, mentre ero in bajaji, e tornavo da Malindi. Sembrava di essere su di un tappeto volante, mentre scorrevano perfette le sagome delle palme, come disegnate su di un cartone dipinto di nero, e sopra la luna, un pallone da rugby leggermente sgonfio.
E’ questo che mi voglio portare a casa quando sarà, questa sensazione, i miei ricordi.
Sostiene Pessoa che “la vita è ciò che facciamo di essa, i viaggi sono i viaggiatori”. Lo sostengo anche io.
veduta del Mida
Due settimane fa mi sono comprata un ciondolo con l’Africa, lo ammetto. E’ piccolo, in argento, smaltato del colore della giraffa. Ero al centro commerciale, l’ho visto in una vetrina. Colpo di fulmine. Ci ho pensato tutta la settimana, poi ho deciso “ ’Fanculo, mi piace, me lo regalo, anche se ce l’hanno tutti.”
Il ciondolo con l’Africa è come il mal D’Africa appunto, ce l’hanno tutti. E’ come avere la testa sul collo, fisicamente, anche se poi saperla usare è un altro paio di maniche. Ma la Mia Africa sarà come questo ciondolo, come la corsa della giraffa, un po’ sgraziata, con le gambe lunghe e nodose, con il suo girarsi lento a sentire i rumori, mentre muove le impalpabili orecchie.
Sarà,  anzi è una corsa su di una lunga distanza, per cercare di stare al passo, e non perdere il ritmo, è come un cubo di Rubik, quando pensi di aver capito il meccanismo, ed invece ti ritrovi con un puzzle di colori.
E’ come prendere in mano la foglia croccante dell’anacardo, sentire il Kaskasi sulla faccia,  farsi prendere un po’ dalla malinconia nel pensare a casa, e’ vero, perché inutile fare gli spacconi, le persone mancano, ma i silenzi aiutano, ci si fruga dentro, si scopre sempre qualcosa di sé, come quel vestito che hai comprato non sai dove, ma che magicamente spunta nell’armadio.
La mia strada va avanti, in continuo movimento, piena zeppa di punti interrogativi, certo. Ma io, di mettermi in discussione, mi sa tanto che mica mi sono stancata, eh?
E.

3 commenti

  • Anonimo

    Baudi, quando torni, metti insieme tutto e chiamami, così ti mettoin contatto con una piccola casa editrice del novarese, magari sono interessati.
    Ti abbraccio fortissimo
    Zanotta

    P.S. un urlo straziante sale dal profondo del mio animo di assistente: AVETE LASCIATO FARE LA MOTORATA A DONNE INCINTE E A UNA OPERATA DI CUORE?????!!!!!! AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH

  • Anonimo

    Si', si', il link glielo da', ma tu intanto rassicuraci sulla incinta e sulla cardiopatica, che' non ci dormo.
    La tua scrittura e' adorabile. Certo, ho il vantaggio di conoscere il tuo modo di parlare, il timbro della tua voce, la tua cadenza, quindi tutto prende ancora piu' colore e familiarita', ma in ogni caso hai una bella prosa.
    Eeeeeh, il classico e' sempre il classico!
    (p.s. si', leggo questo blog dopo un anno, ma la vecchiaia causa lentezza: ho fatto la maturita' nel '91.)

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